Passeggiamo nel centro storico della Città Eterna alla scoperta della storia e delle storie del Ghetto Ebraico di Roma, uno dei più antichi al mondo. La comunità ebraica a Roma era fiorente già a partire dal III – II secolo a.C. e si stanziò soprattutto nella zona dell’attuale Trastevere.
La passeggiata nel ghetto parte dal Portico d’Ottavia, nel rione Sant’Angelo. Il ghetto di Roma è confinante con gli scavi del Portico D’Ottavia e il Teatro di Marcello. Fu realizzato nel 1555 da Papa Paolo IV Carafa, sull’esempio del primo ghetto italiano a Venezia, voluto in realtà dal Senato e precedente di qualche decennio. La parola ghetto deriva infatti dal veneziano “ghèto” e significa fonderia. Il quartiere della fonderia era quello in cui furono costretti gli Ebrei a Venezia. La Chiesa di Roma istituì il ghetto a Roma per isolare la comunità di culto diverso al cristianesimo.
Agli Ebrei che vivevano e operavano a Roma venne imposto di vendere tutte le loro proprietà, comprese le loro case, fu impedito l’accesso alle università e a molte professioni. L’unico commercio consentito era la vendita di stracci e vestiti usati. Furono relegati in questo spazio delimitato da alte mura. Inizialmente c’erano solo due porte, una d’entrata e una d’uscita.
Gli Ebrei avevano l’obbligo del coprifuoco, potevano uscire dal ghetto soltanto durante il giorno e tornarvi prima del suono della campana che annunciava il tramonto. Dovevano esporre un segno di colore glauco che li rendesse immediatamente riconoscibili come il berretto per gli uomini.
Il Portico d’Ottavia fu costruito da Augusto al posto del più antico portico di Metello, tra il 27 e il 23 a.C. e dedicato alla sorella Ottavia. Era un quadriportico con i templi di Giunone Regina e Giove Statore, due biblioteche, una greca e una latina, e un grande ambiente per pubbliche riunioni, la Curia Octaviae. Il suo interno doveva configurarsi come una sorta di museo all’aperto, tra cui spiccava la turma Alexandri, opera di Lisippo, un gruppo di bronzo raffigurante Alessandro Magno e i suoi cavalieri.
Il Portico d’Ottavia andò in rovina con la caduta dell’Impero Romano e in epoca medievale, sui suoi resti sorse la Pescheria. La Pescheria era il principale mercato cittadino per la vendita del pesce, in una posizione prossima al fiume dove ogni notte arrivava il pesce fresco. Il mercato restò attivo fino alla fine dell’Ottocento e rappresentò uno dei luoghi più frequentati dalla comunità ebraica. Adiacente il Portico, a inglobare una parte della struttura, sorge la Chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, che deve il suo nome al vicino mercato.
Risalente all’VIII secolo, la chiesa non ha una vera e propria facciata, che è costituita da un semplice muro di mattoncini e ingloba tre colonne corinzie del Portico e parte del timpano, visibile ancora dall’interno. Nella Chiesa è conservato un organo del 1877, integro nelle sue caratteristiche foniche originarie.
Al suo interno vi è la Cappella di Sant’Andrea eretta come sede della Compagnia dei Pescivendoli nel 1571, solo recentemente divenuta Cappella del Santissimo Sacramento. La Cappella raccoglie opere d’arte di notevole importanza, a testimonianza di quale fosse il potere della corporazione dei pescivendoli, peraltro di difficile accesso. La volta della cappella è affrescata con le storie di Sant’Andrea di Innocenzo Tacconi mentre il dipinto che si trova sull’altare è opera di Giorgio Vasari.
Percorrendo Via del Portico d’Ottavia si può anche assaporare la cucina koscher e giudaico romanesca, affiancata da alcuni piatti d’importazione e contaminazioni. Così accanto agli indimenticabili carciofi alla giudia, ai filetti di baccalà fritti, al tortino di aliciotti e invidia e alla concia di zucchine troviamo anche l’humus, antipasto di ceci e tahina, i falafel e il baba ganush, piatti di provenienza medio orientale.
Anche le pasticcerie hanno una storia kosher da raccontare che mantiene viva la tradizione dolciaria. Assaggiate la crostata di mandorle, la torta di ricotta e marmellata di visciole e la Pizza Beridde, con canditi, mandorle pinoli e uvetta.
Curioso scoprire che nel Ghetto c’è un fascione in marmo con una scritta che identifica la casa di Lorenzo Manilio. Nel 1468 questo commerciante di spezie indicò così la sua dimora che riuniva tre abitazioni in una, orgoglioso dell’arte e dei valori dell’antica Roma, copiati nelle botteghe artigiane.
Ritornando verso il Portico d’Ottavia non è possibile poi non fermarsi alla pasticceria viennese, l’unica pasticceria austriaca a Roma, che insieme alla Sacher Torte propone specialità americane e pane austriaco e tedesco.
Dopo la sua istituzione, il ghetto venne più volte dismesso, anche se per brevi periodi a cui seguì di nuovo il confinamento della comunità ebraica. Bisogna attendere il 1848 perché il muro di cinta venga abbattuto, ma solo nel 1870, con la breccia di Porta Pia e la fine del potere temporale, il ghetto venne definitivamente chiuso e gli ebrei furono equiparati ai cittadini italiani. L’intera zona nell’antichità era percorsa soltanto da stretti vicoli su cui si affacciavano palazzi di cinque o sei piani. Qui per 300 anni vissero oltre 6.000 persone, in piccoli appartamenti. Ne sono ancora un esempio le zone di Via della Reginella e Via di Sant’Ambrogio in cui si respira l’aria autentica del ‘serraglio’.
Alla fine di Via della Reginella, a Piazza Mattei, ci imbattiamo nella Fontana delle Tartarughe. La fontana fu realizzata su progetto di Giacomo Della Porta tra il 1581 e il 1588. Ha una struttura complessa con una vasca quadrata, arrotondata negli spigoli, al centro della quale si erge una sorta di anfora alla cui base sono presenti quattro conchiglie. I quattro efebi in bronzo che giocano con i quattro delfini evidenziano un insolito gusto manieristico per le fontane romane dell’epoca. Gli efebi e le tartarughe sul bordo superiore sono attribuite a Gian Lorenzo Bernini e sono un’aggiunta di un restauro avvenuto nel 1658.
Una leggenda avvolge di mistero la Fontana delle Tartarughe. Si narra che il duca Mattei, il cui palazzo si affaccia sulla piazza omonima, per stupire il futuro suocero che non voleva concedergli in sposa la figlia, fece costruire la fontana in una sola notte. Esibita il giorno seguente dalla finestra del suo palazzo alla futura moglie e a suo padre, fece poi murare la finestra perché nessuno potesse più godere dello stesso spettacolo.
Alla fine dell’Ottocento lo stato di degrado, le fogne a cielo aperto e la vergogna provata dal nuovo governo, spinsero il Parlamento Italiano e Re Vittorio Emanuele a radere al suolo gli edifici che si affacciavano nelle piccole viuzze del ghetto, per costruire un moderno quartiere con strade più ampie e palazzi solidi. Nella zona di Via del Portico d’Ottavia, via Catania e Via del Tempietto sorse il Tempio Maggiore o Sinagoga.
La Sinagoga fu inaugurata nel 1904 ed è la più importante a Roma. Svetta con la sua cupola su un tamburo quadrato, a significare la parità di dignità nella diversità di culto. Realizzata su progetto degli architetti Vincenzo Costa e Osvaldo Armanni, la Sinagoga è in gran parte in stile liberty, anche se ricorda per alcune caratteristiche gli edifici dell’antica Babilonia.
Al suo interno, al livello inferiore è ospitato il Museo Ebraico. Il museo espone importanti oggetti d’arte tra cui una collezioni di argenti romani del 1600 e del 1700, pergamene miniate.
Dei 1259 ebrei romani deportati il 16 ottobre 1943 nei campi di concentramento in Germania non resta più nessun testimone in vita. E’ infatti scomparso l’ultimo sopravvissuto della Comunità ebraica, Lello Di Segni, deportato con tutta la sua famiglia ad Auschiwtz-Birkenau e unico superstite del suo gruppo familiare. Esiste però un luogo-testimonianza nel Ghetto romano che racconta della tragica esperienza, è Largo 16 ottobre 1943.
Il Tempietto del Carmelo nel rione Sant’Angelo è invece il luogo dove regolarmente per secoli gli Ebrei dovettero ascoltare le prediche coatte che miravano alla loro conversione al Cristianesimo. Piazza delle Cinque Scole prende il nome dalle cinque diverse comunità ebraiche che furono costrette ad arrivare a Roma, dove venne recepito l’editto del Papa. Erano la Scola Nova, la Scola del Tempio, la Scola Siciliana, la Scola Castigliana e la Scola Catalana.
Cercate le “pietre di inciampo” nel Ghetto. Sono opera del tedesco Gunter Demnig realizzate in ottone lucente e leggermente sollevate rispetto la pavimentazione per far “inciampare”, appunto, e soffermarsi. L’artista ha voluto ricordare così le vittime della persecuzione del regime tedesco nei luoghi dove vissero ed ebbe inizio il loro olocausto. Continuano di anno in anno nuove aggiunte di Pietre d’Inciampo, per non dimenticare.